Favole d’Amore Oscuro

la notte della condanna
padre, perdonatemi

Gotico

La notte della condanna

In questa notte di luna nuova io sono insieme a te. Non avrei mai creduto di stare insieme al mio nemico naturale… non avrei mai creduto di innamorarmi del mio nemico. Sfioro le tua braccia così piene di cicatrici, così ruvide, così segnate da anni di cacce. Osservo anche le ferite nuove, quelle non ancora rimarginate e le accarezzo. Guardami, guardami in questa notte senza stelle. La lieve luce che entra dalla finestra mi fa risplendere, risplendo nella notte oscura, risplendo come se io fossi la Luna, tua madre. Guardami in quel modo, anche se sai che questa è la nostra ultima notte di pace, anche se sai che potremmo non averne più di così belle. Ricordo la prima volta che ti ho visto, con sguardo carico d’odio ti dirigevi verso il tuo inferno. Mi abbasso sul tuo petto, ti annuso, tu apri gli occhi, finora voltati dalla parte opposta della finestra e ti giri verso di me. Sento le tue mani accarezzarmi la schiena e arrivare fino alle spalle cingendole con forza; i miei capelli neri, lunghissimi si fondono ai tuoi, diventando una cosa sola. Ti alzi, annusi il mio petto e ne assapori il sudore, insieme alla libertà e alla pace che forse non ritroveremo mai più perché questa notte abbiamo segnato la nostra maledizione, la nostra condanna a morte.

Ti percepisco. Non riesco a sentirti, per tua stessa natura. Sei mia, sei qui, possiedi un corpo e tuttavia mi sembri così eterea. Tengo gli occhi chiusi, non oso aprirli e capire, comprendere che invece non ci sei. Leggera come la piuma di un angelo, in realtà ne sei l’opposto. Sei stupenda ma in modo malvagio, sei tu l’incarnazione del male. Sei l’essere perfetto della tua razza, ma stai buttando via tutto. Per me. Sento le tue mani scorrere sulle mie ferite e non capisco se il brivido che sento è dovuto al dolore o al piacere. I tuoi capelli mi fanno il solletico, apro gli occhi e ti abbraccio. Assaggiando il tuo sapore ho la certezza finalmente che ci sei. Non ho la sensazione della pericolosità del momento, non ho proprio l’ansia di qualcuno che si sta condannando con le proprie mani. Per adesso ci sei solo tu, il mio mondo, la mia Luna. Tu, che risplendi stanotte al posto della Luna, ascolta le parole di colui che per adesso è umano. Ti amo.


Passeggiavo di notte nel mio giardino, osservando con attenzione i particolari di ciò che mi circondava. Io, altezzosa, figlia del nostro re, cercavo l’ispirazione per i miei disegni. Trovai una panca su cui sedermi e iniziare il disegno del castello che si stagliava nero contro il cielo coperto di nuvole cariche di pioggia. Prima ancora di appoggiare la matita sul foglio, sentii i passi pesanti della ronda che tornava alla base. Il cancello più piccolo dei quattro che formavano l’ingresso venne aperto e mi voltai a guardarli passare. Li osservai mentre mi passavano di fianco. I Vampiri Trasformati, nostri schiavi, avevano catturato un Licantropo. Le nuvole avevano coperto la luna e con essa offuscato il tuo potere.

Esseri infimi, che devono attendere la Luna Piena affinché si materializzi il loro potere.

Esseri inutili, che non sanno controllare il loro potere perdendo totalmente il senno e facendosi trasportare dall’istinto.

Questi i miei pensieri. In quel momento mi sentivo grande, superiore a te. Osservavo con piacere smisurato le tue ferite, ferite che non potevi rimarginare, le stesse che sto toccando adesso. Tu mi guardavi con occhi carichi d’ira e d’odio, te lo leggevo in faccia che mi avresti uccisa sul posto se avessi potuto liberarti. Io riconobbi le tue vesti, vesti reali. Tu eri, sei come me. Le guardie ti conducevano in catene verso il castello che mi accingevo a disegnare, verso quell’ammasso di guglie che sembravano i rami di un cespuglio, dalle cui foglie nere iniziavano a sbocciare fiori che si richiudevano subito dopo. Mi alzai, non aveva ancora iniziato a piovere ma solo a tuonare e me ne tornai nella mia camera. Tanto il sole stava per svegliarsi e non valeva la pena indebolirsi solo per non vedere neanche i colori dell’alba. Il sole ci indebolisce ma non ci uccide, resistiamo ai raggi a differenza dei Trasformati, noi siamo una razza superiore. Mio padre era un mago, un mago che desiderava l’immortalità per se e per sua moglie. La ottenne secoli fa e qualche tempo dopo nacqui io, nata Vampira. Tutto ovviamente ha un prezzo e l’immortalità ha gli svantaggi dall’essere rinnegati da Dio, ma ha tutti i vantaggi della protezione di Lucifero. Arrivai nella mia camera, tirai le tende di pizzo nero affinché i raggi dell’odiato sole non entrassero nella mia stanza e mi distesi, attendendo il tramonto.


Solo per la sfortuna avversa io mi ritrovavo lì quel giorno. Così pensavo in quel momento, ma adesso non posso fare a meno di pensare che invece non lo era. Mi avevano catturato solo perché quei nuvoloni neri avevano oscurato la Luna, fonte del mio potere, lasciandomi in forma umana nel momento meno propizio. Mi ritrovavo con talmente tante ferite che non capivo dove fossero effettivamente e le catene che usavano per strattonarmi non facevano che peggiorare la situazione. Varcato il cancello, la prima cosa che vidi sei stata tu. Tu arrogante nel tuo abito bianco, disegnato forse per ricordare un cigno. Il mio odio cresceva più rimanevo a guardarti. Non so cosa ci facessi ancora alzata, il sole stava per sorgere e tu eri lì quasi come per aspettarmi. Venni condotto nelle carceri, giù, sottoterra, dove la Luna non si vede, dove neanche il sole può arrivare. L’immagine del castello rimarrà per sempre nei miei ricordi. Una figura nera, su un fondale grigio fatto di nuvole. I suoni che si affievoliscono, come sempre prima dell’arrivo della pioggia. Quel silenzio lo assocerò per sempre al dolore.


La notte seguente ricevetti un messaggio da mio padre. Dovevo far parlare il Licantropo. Sospirai. Parlare? Perché? Che cosa poteva dirmi che lui non potesse scoprire da solo? Mi alzai e mi misi un vestito più confortevole, le prigioni non sono il massimo della comodità. Mi recai nella sala da pranzo, lì un uomo parlava con lui. Mi colpì. Un brivido mi percorse tutta la schiena, un senso di ansietà e paura mi avvolse con il suo manto. Nonostante tutto, non potei fare a meno di notare quanto fosse affascinante. I capelli neri, gli occhi rossi e la somiglianza con mio padre. Sorrise. Un sorriso più crudele di un vampiro. Ma ciò che mi colpì sul serio fu il libro enorme su uno dei tavolini della sala. Mio padre si alzò e si diresse verso di me. Mi sussurrò all’orecchio di chiedergli dove fossero gli altri e di torturarlo con i miei poteri e le mie facoltà. Lo salutai in segno di rispetto e, con la sensazione sgradevole di essere stata liquidata, mi diressi alle prigioni.


Non mi era chiaro dove mi trovassi, figuriamoci capire se fosse notte o giorno. Mi ero ritrovato addirittura a pensare di essere lì da sempre, di essere sempre stato legato a quelle catene e di averle sempre avute, quelle ferite. Le braccia potevano benissimo essermi state amputate, l’unico dolore che sentivo era alle gambe, forse perché non erano malmesse come gli arti superiori. Non avevo neanche la forza di alzare lo sguardo, per me non c’era altro che il pavimento e qualche goccia di sangue sui pantaloni. Il rumore dei cardini della porta della prigione attirò la mia attenzione. Cercai di alzare lo guardo, ma la testa mi obbedì solo in parte. Comunque capii che doveva trattarsi dell’altezzosa. Le gambe erano troppo sottili per essere quelle di un uomo.


Mi trovai davanti al Licantropo. Osservavo il corpo di quell’ essere, decisamente troppo massiccio per i miei gusti. I capelli sporchi, naturale era un prigioniero, che ricadevano sugli occhi, la maglietta distrutta e il respiro pesante, erano queste le cose che lo caratterizzavano. Il licantropo alzò lo sguardo e io feci un cenno alla guardia. Quella uscì e chiuse la porta.


La Vampira mi guardava, ma stavolta il suo sguardo era preoccupato. C’era qualcosa che non andava, era diversa. Ma la cosa non mi importava, sai quanta pietà potevo provare per i miei carcerieri. Mi guardava fisso, poi, a un suo cenno, la guardia uscì. A quel punto unì le mani e le riaprì di scatto. Le catene mi lasciarono andare e iniziai a provare dolore. Appena fui libero mi accorsi che l’unica cosa che mi teneva in piedi era la forza delle catene stesse perché le gambe cedettero subito. Per le braccia fu più traumatico. Erano intorpidite e appena caddi a terra, per istinto le misi davanti a me per attutire la caduta, ma una volta a terra provai tutto il dolore che prima non sentivo. Cedettero anche le braccia e finii a terra disteso.


Mentre toglievo le catene sapevo già cosa sarebbe successo. Gambe che cedevano, lui a terra carponi, tempo pochi secondi e a terra disteso. Lui non fece differenza. Non riuscivo neanche a pensare che fosse patetico, ne avevo visti troppi in quelle condizioni. Ma lui, anzi, l’orgoglio dentro di lui, mi colpì molto di più dell’uomo con mio padre. Se le gambe e le braccia cedevano era per colpa dell’anestetico che terminava il suo effetto. Troppo forte per reagire, non abbastanza forte per non far provare dolore, l’anestetico era usato per far vivere l’inferno ai prigionieri. Ma lui era diverso.


Non gliela diedi vinta, non le diedi la soddisfazione di vedermi in quello stato. Battei con tutta la forza che mi rimaneva il pugno a terra. Il dolore si propagò nel mio corpo come una scossa elettrica. Non me ne importò. Con la forza della disperazione mi sollevai e battei anche l’altra mano a terra e tentai di rialzarmi. Mi aspettavo un colpo, altro dolore, altre ferite e invece quando alzai lo sguardo rimasi stupito. Non stava reagendo come pensavo.


Scusa. Scusa. Scusa. Solo questo pensavo. Scusatemi padre. Scusa… tentai di buttarlo a terra con la psicocinesi. Tentai di infondergli dolore con l’ipnosi. Tentai di fargli tremare la terra sotto i piedi con la magia. Niente. I miei poteri su di lui non avevano effetto. Iniziai a tremare, indietreggiai, arrivai alla grata e con i miei poteri aprii la porta. In preda a un panico che mai avevo provato prima, corsi via. Quasi sul punto di piangere.


Rimasi sorpreso. Non capivo. Perché era scappata? Cosa avevo fatto? Mi sedetti a guardarla andare via, una mano per coprirsi la bocca. Purtroppo la guardia non era dello steso parere della sua padrona. Aveva visto la sua principessa scappare via in preda alle lacrime, chissà cosa gli era passato per la testa, a quella guardia. Comunque sia mi colpì e io persi i sensi.


Corsi. Sull’uscio di una porta trovai mio padre che si congedava dall’uomo dagli occhi rossi. Io mi buttai tra le braccia di mio padre. Lui rimase stupito. Mi accarezzò dolcemente la testa e chiese cosa non andasse. Io gli dissi tutto e lui mi accompagnò in camera mia. Rimase con me, finché non mi calmai e mi addormentai come una bimba tra le sue braccia. La notte dopo decisi di parlare di nuovo a quell’uomo. Dovevo sapere perché non riuscivo a usare i miei poteri su di lui.


Tornò. Mi stupii più dell’altra volta. Stavolta in abito lungo e ampio, mi osservava con paura. Niente più arroganza, niente più malvagità. Solo curiosità, almeno mi sembrava. Teneva le mani una dentro l’altra e le stava torturando. Stavolta rimasi attaccato alle mie catene. Per qualche strana ragione provai tenerezza. Sembrava una bambina. Poi mi tornò in mente che cosa fosse e un’altra immagine mi sovvenne. Quella di una bambola assassina.


Ero spaventata ma anche curiosa. Volevo sapere. Ma quello sguardo che mi stava lanciando… sembrava un cagnolino, inclinò la testa da un lato e mi osservò con degli occhi che mi parvero dolci… che mi capisse così a fondo? Mi irritai, allungai le braccia lungo i fianchi e mi irrigidii.


Non durò a lungo. Si irrigidì. Iniziai a odiarla di nuovo. Però non potevo fare a meno di pensare che fosse bella. Così pensai a una piccola vendetta, una piccola soddisfazione.


Decisi di andare subito al sodo. “Perché non funzionano i poteri con te?”


Non capii cosa mi avesse chiesto. “Quali poteri?”


“I vampiri nati hanno poteri intrinsechi. Perché su di te non funzionano?”


La mia occasione. Abbassai lo sguardo. Già non avevo voce di mio, poi io l’abbassai di più. Chissà, forse ti commossi e tu ti avvicinasti.


Si accasciò. Pensai che stesse male, ma io volevo sapere. Mi avvicinai per ascoltarlo. Era di molto più grande di me tuttavia era legato alle catene. Non poteva liberarsi. Aveva gli occhi chiusi ma appena mi avvicinai lui li aprì e mi baciò.


Vittoria. Lei si era avvicinata quel tanto per permettermi di baciarla. Lei mi odiava, odiava la mia razza. Per me era una piccola soddisfazione sapere che per lei era la cosa più odiosa. Ma qualcosa mi fece capire che mi ero spinto troppo in là. Qualcosa mi fece capire perché i suoi poteri non funzionavano. Su di me almeno.


Avrei dovuto staccarmi subito. Invece in uno stato di pazzia totale pensai anche che mi piaceva. Un piccolo momento di pace, per me era quello l’attimo… assurdo. Abbassai lo sguardo e sentii i nostri respiri. Poi mi accorsi di cosa stessi provando. Poi mi accorsi… e per la seconda volta scappai via. Diretta stavolta alla mia camera.


La guardavo mentre lei riordinava i pensieri. Un attimo lunghissimo. Lei con lo sguardo chino e i capelli neri che le incorniciavano il volto era stupenda. Possibile che potesse succedere una cosa del genere solo in poche ore? La vidi comprendere cosa fosse successo realmente, vidi lacrime cadere dai suoi occhi e rigarle il viso, vidi l’attimo in cui riprendeva coscienza di se. Alzò gli occhi. Mi strinse le spalle con i suoi artigli e mi spinse contro il muro. Mi fece male. Ma non credo che fosse paragonabile a ciò che le avevo fatto io… era assurdo per me, figuriamoci per lei.


Attesi l’alba e aprii le finestre della mia camera. Il sole mi colpì come una freccia e io l’osservavo come se fosse Lui. Bello, stupendo. Così stupendo che a furia di guardarlo ti fa male. Tante frecce, una dopo l’altra, mi colpivano. Il Sole mi indeboliva ma osservarlo era un piacere… anch’io posso apprezzare i colori dell’alba… anch’io posso vedere quanto c’è di bello a questo mondo… anch’io apprezzo i fiori, i giardini, gli alberi, la musica… e allora mi chiedevo posso apprezzare anche te? Richiusi le tende e attesi la notte. Attesi il sorgere della Luna, sperando di essere io la Luna.

Al crepuscolo andai da mio padre. Lui era preoccupato. Mi abbracciò e mi disse di non preoccuparmi… Lui, il Licantropo, sapeva dove si nascondevano gli altri ma non serviva saperlo se la sua esistenza mi causava solo dispiaceri… all’alba lo avrebbero ucciso. Io gli sorrisi e tornai in camera. Mi concentrai su mio padre e lo trovai nel suo studio, di nuovo intento a parlare con l’uomo dagli occhi scarlatti. Mi diressi verso uno dei miei scrigni intarsiati. Lo aprii. Dentro, il pugnale appartenuto a mia madre…

No. Non sarebbe morto.


Non pensavo saresti tornata. E invece ti rividi. La guardia aprì la cella. Le notai subito. Non le dimenticherò mai… tu dietro di lui e appena entrasti, iniziarono a scorrere. Due piccoli rigagnoli che scorrevano ininterrotti sulle colline delle tue guance. Veloci come lo sei stata tu. Il sorriso arrogante sul viso della guardia rimase scolpito per sempre sul suo volto. Tu tremavi mentre toglievi il pugnale dalla sua schiena. Eri stupenda avvolta dalla cenere in cui il corpo si tramutò. Un angelo nero, caduto, avvolto da tanti piccoli cristalli iridescenti, che piangeva con un pugnale nella mano destra, si ergeva proprio davanti a me. Non potei fare a meno di pensare a cosa stessi facendo. Quanto era grave ciò che avevi fatto? Con un gesto, lo stesso della prima volta, facesti cadere le catene. Tra le lacrime e una voce rotta dai singhiozzi dicevi di non poter permettere l’attuazione della mia condanna. Io mi avvicinai e ti strinsi. Tu ti lasciasti andare in un pianto a dirotto, aggrappandoti a me come una nave alla sua ancora.


Il tuo corpo era caldo. Non potevo permettere che… se ci ripenso ora mi tornano i brividi. Ciò che avevo fatto in se non era grave… ma averlo fatto per un Licantropo? Quanto avrei fatto arrabbiare mio padre per questo? Sono a conoscenza dell’odio per mio padre ma non ne conoscevo la ragione. Ti avrebbe accettato? No, lo sapevo di già. Ti presi per mano e ti condussi per il castello, evitando le guardie, fino in camera mia. Saremmo dovuti scappare prima dell’alba e avremmo dovuto correre di giorno. Ce l’avrei fatta io, di giorno?


Sapevo a cosa stavi pensando, lo sapevo e non c’era altra via di fuga se non di giorno. Ti avrei portata io in braccio, non c’erano problemi. Li avremmo distanziati… sembrava facile detto così e tu non ci credevi, lo so. Tu così bella… io… io non lo so. So solo che… che io… io…


Per tutta la notte sentirono i rumori prodotti dalle guardie che lo cercavano per tutto il castello. Loro erano nella loro pace, attendevano l’alba con paura e speranza, una fievole speranza di riuscirci… Nessuno entrava nella stanza, nessuno li cercava lì. nessuno avrebbe mai osato accusarla. Quando il cielo iniziava a schiarirsi, loro scapparono. Lui seguiva lei attraverso passaggi, fino al cortile dove, nascosti dagli alberi, attraversarono la cancellata. Insieme, lui che aiutava lei sempre più debole a causa dei raggi solari. Lei si voltò a guardare il castello. Era bianco. Il primo giorno scapparono di mattina, il secondo dovettero di notte. Nel frattempo al castello scoprirono la loro scomparsa. Il padre si maledisse per non aver fatto in tempo, per non aver distrutto all’origine il problema. Eppure era stato avvertito. Iniziò l’inseguimento. La seconda notte lo incontrarono. Sotto al mare di foglie scure solcato da delle piccole barche di stelle, lui li attendeva. Non li stava inseguendo, era solo curioso di vederli. Lei lo riconobbe subito. Alto, affascinante, terrorizzante… con i suoi occhi rossi e con il suo libro in mano sorrideva. Disse loro di stare tranquilli, lui osservava, non stava da nessuna parte. Il Licantropo si rimise a correre, lo superarono e lo lasciarono indietro, insieme alle loro vite, alla loro pace…

Passarono i giorni, passarono le settimane, i mesi e gli anni a scappare, per non essere presi. Videro le città più grandi e i sobborghi più tetri, si nascosero all’aperto e negli anfratti più bui ma col passare del tempo rallentarono il ritmo. Non li sentivano più addosso come prima. Forse stavano per rinunciare. Dormivano, riposavano nella loro stanza della villa abbandonata da molti anni, immersa nel bosco. Un bosco silenzioso e da entrambi reputato bellissimo. Si svegliarono insieme in preda all’ansia. Si guardarono e capirono di non poter più scappare. Di non potercela fare e presero una decisione, l’unica che li avrebbe o liberati per sempre o condannati. Decisero di combattere. I Vampiri non erano in molti, una decina di Trasformati e suo padre. Nella notte riuscirono a ucciderne qualcuno ma nella battaglia vennero separati. Il Licantropo incontrò l’uomo con il libro. Le nuvole che impedivano alla Luna di illuminare la terra con i suoi raggi, si dispersero. Nella forma animale lo attaccò. Era lui la causa di tutto, lo sapeva. Era stato lui ad aver informato gli altri… con un semplice gesto l’uomo colpì il Lupo. Il pelo bianco, luminescente, si macchiò di rosso. Lui cadde sulla schiena, all’indietro. Si ritrasformò. Una mano toccava la ferita sul petto, l’altra copriva il volto. Un piccolo raggio di Luna scese dai suoi occhi. L’uomo prese un fazzoletto e pulì il pugnale. Guardò il Licantropo. Il rosso spiccava sulla camicia bianca. In un altro luogo della foresta la Vampira urlò. Sentiva ciò che era appena successo. Davanti a lei suo padre la guardava amorevolmente. La rivoleva con se, restava pur sempre sua figlia. Sperava che con la morte del Licantropo sarebbe finita, lei sarebbe tornata con lui. Gli ci volle qualche minuto per capire che era impossibile, che ormai lei era… era contaminata dal Licantropo. La paura, la rabbia, la disperazione di averla persa per sempre lo fecero impazzire. Iniziò una lotta in cui l’unica cosa che interessava a lui era distruggere per sempre una contaminazione prima ancora che potesse nascere… lui la colpì nel ventre, trapassandola. Senza alcun dispiacere, lui se ne andò. Poco dopo apparve l’uomo del libro. “Perché? Non dovevi solo osservare?”

“È quello che ho fatto ma se mi attaccano mi difendo. Io non ho fatto nulla.”

Il suo sangue si distribuì per il terreno rendendolo arido e privandolo della facoltà di creare vita. Il suo corpo divenne piccoli cristalli di luce che si alzarono verso il cielo, portando con se l’amato figlio mai nato.

Nella villa piccoli passi giravano in vano. Dopo qualche minuto il bimbo iniziò a singhiozzare senza però scoppiare in un pianto a dirotto. Il piccolo vide da una finestra un piccolo rivolo di fumo che sembrava luce. Inconsciamente, capì che era qualcosa di triste. Un pianto simile a un requiem si alzò nel cuore della notte.


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