Favole d’Amore Oscuro
E poi la fine
Gotico
In una villa bellissima, in mezzo a un bosco sconosciuto, abitava una donna stupenda. Si diceva che questa donna possedesse il dono della vita eterna, che potesse prolungarsi la vita. Una vecchia leggenda a cui pochi credevano. Nemmeno io, all’inizio. Abitavo in un villaggio di campagna, a quel tempo. Io e la mia famiglia, composta solo da mia madre e mio fratello, ci recammo in una villa in campagna per questioni di salute. Mia madre era cagionevole, così decidemmo di andare in un posto un po’ più salutare per lei. Purtroppo non bastò, passarono solo pochi giorni trasloco e lei se andò. Io e mio fratello rimanemmo soli. A lui bastò poco per riprendersi dalla morte di nostra madre, incontrò una ragazza e se ne innamorò perdutamente. Io, invece, non facevo altro che preoccuparmi della morte… la mancanza di mia madre si sentiva, di certo non ero più bambino ma non ero ancora un uomo adulto e avevo bisogno di una guida, di qualcuno che mi sostenesse… mio fratello fu fortunato: la trovò in quella donna. Io, al contrario, non facevo altro che leggere, leggere nella nostra biblioteca. Vampiri, streghe, maghi, demoni e infine i diavoli stessi. Avevo le conoscenze comuni sui diavoli, esseri malvagi che tentano gli uomini per condurli alla perdizione… avrei dovuto avene paura ma ero allettato dalla storia di Lucifero. L’angelo portatore di luce che sedeva di fianco a Dio, gli si ribellò e precipitò sulla terra.
Il diavolo altro non è che la creatura più bella creata da Dio, possibile?
Mio fratello continuava a dirmi di lasciar perdere, di dedicarmi a cose più salutari che starmene tutto il tempo a leggere, specialmente cose che mi avrebbero fatto condannare come eretico… chiusi il libro e andai a passeggiare nel bosco, dove incontrai una serva che sgridava il figlio per essersi addentrato nel bosco. Non riuscii più a dimenticare ciò che gli disse. La donna diceva che era pericoloso addentrarsi nel bosco perché Beldara attendeva solo quello. Le chiesi chi fosse Beldara e quella rispose che si trattava di una donna. Una donna bellissima, con i capelli biondi come il sole e morbidi come le nuvole, con gli occhi azzurri come il mare e tanto stupenda quanto crudele. Tutti gli uomini, che avevano la sventura di incontrarla, non potevano fare a meno di cadere ai suoi piedi. Abitava da qualche parte nel bosco ma nessuno sapeva esattamente dove. Forse addirittura in nessun luogo accessibile da mente umana. Quella donna era una strega, le cronache del villaggio ponevano la sua nascita a duecento anni prima, nata da una donna dell’est e da un uomo accusato di stregoneria. Molti degli uomini che si addentravano nel bosco, non ne facevano ritorno. Non era la prima volta che sentivo questa storia, ma per la prima volta udii il nome di quella donna.
Beldara… quel nome mi risuonava nella testa mentre percorrevo la strada di casa, circondato dalle foglie portate dal vento.
La notte venni svegliato da un canto meraviglioso. Incantato uscii, non visto, in giardino. Ciò che vidi mi affascinò. La strada, che conduceva al bosco vicino alla fattoria, nient’altro che terra battuta, era diventata un percorso piastrellato di luce. La mia mente, ancora sconvolta dalla scomparsa di mia madre e ricolma delle trame dei miei libri, pensò che potesse essere la strada verso l’aldilà. All’inizio ero spaventato, non volevo andare, ma la voce sembrava provenire proprio da qualche parte oltre il percorso, dietro gli alberi. Decisi di attraversare la strada, di percorrerla fino in fondo, per arrivare alla donna padrona di quella voce. Non so, anche adesso a distanza di anni, per quanto tempo camminai. So solo che al termine di quella strada, arginata da mura di luce sfumata d’azzurro, davanti a me si innalzava una casa, e dietro il sole sorgeva, rendendo la casa una sagoma nera. Corse fuori, e mi raggiunse. Non sapevo chi ella fosse, ma caddi tra le sue braccia. Tintinnii di campanelli mi svegliarono. Suoni sottili, leggeri… non so esattamente come descriverli. Mi trovavo in una stanza con un letto a baldacchino, dietro le tende scarlatte, si muoveva una figura sicuramente femminile. Istintivamente scostai la tenda e afferrai il polso della donna. Si sentì un rumore secco, qualcosa andò in frantumi. Mi alzai e la donna mi osservò. Aveva la pelle scura, abbronzata, i capelli e gli occhi scuri. Sopirai il nome di Beldara. La donna mi prese il polso e staccò la mia mano dal suo. Con il vestito arancione che ondeggiava, si voltò e si diresse verso la porta, lasciandomi solo. Io mi alzai dal letto e osservai la stanza. Una stanza da letto normale, con un letto a baldacchino e un comodino di fianco, alla sua destra una finestra a cui mi avvicinai per guardare fuori. Ciò che vidi mi lasciò stupefatto. Nonostante fosse primavera, il paesaggio era bianco. Fiocchi di neve leggeri scendevano e andavano ad accumularsi sul terreno e sugli alberi. Dov’ero finito? Mentre tentavo di riconoscere il paesaggio, la porta si aprì. La donna che entrò nella stanza portava un abito azzurro e, non potevano esserci dubbi, era Beldara. Quello fu il nostro primo incontro. La prima volta che la vidi credo di aver provato qualcosa di simile al sentimento chiamato amore…
Si prese cura, mi coccolò, passeggiammo in giardino, parlammo e intanto i giorni passarono. Nel giardino era sempre inverno, tutti i giorni, ma non mi curai minimamente di quel dettaglio… mi sembrava di vivere eternamente, in un posto infinitamente uguale. La neve scendeva ma io non sentivo freddo… poi un giorno accadde qualcosa. Una mattina trovai la porta della mia camera chiusa a chiave. Le mie urla non vennero udite da nessuno, almeno credo. La casa sembrava vuota, sembrava che io fossi stato abbandonato a me stesso. La mattina dopo la porta era nuovamente aperta e Beldara non disse nulla sull’accaduto né io ne feci cenno. Accadde altre volte nel giro di qualche mese. Come al solito non me ne curai, finché un giorno non venni preso dal panico. Nonostante quello fosse un posto eterno, io non lo ero. Non lo sarei mai stato e le mie paure tornarono a galla. Mi ferii una mano con la spina di una rosa, una bianca come tutto il resto, che si trovavano ovunque in quel giardino, e osservai il mio sangue scorrere…
Quella notte non dormii. E in quel momento, forse verso mezzanotte, sentii un pianto provenire da fuori. Si acquietò subito, ma non lo fece il mio animo. Andai fuori in giardino e camminai nella notte, un passo dopo l’altro, senza sapere nemmeno io dove andare. Presi un sentiero che non avevo mai visto. Il paesaggio si fece sempre più spoglio, gli alberi alti e ramificati diventarono sempre più gracili e con rami più piccoli. Attraversai un cancello, tanto lungo che non riuscivo a vederne la fine. Il luogo dove mi trovavo era deserto e una leggera nebbia saliva da terra, nebbia che zigzagava tra le lapidi del cimitero in cui mi trovavo come un serpente. Non c’era neve qui. Guardando i nomi delle lapidi mi accorsi che erano tutti nomi maschili… non c’era neanche una donna. In mezzo al cimitero, visibile anche da lontano, si trovava un angelo seduto su uno dei bracci di una croce, con le mani giunte in preghiera e una lunga veste, che lo scultore volle rappresentare in balia del vento. Mi avvicinai e notai, ai due lati dell’angelo, due lapidi, molto più belle e raffinate delle altre. Alla destra dell’angelo era presente l’unico sepolcro di una donna. Mi avvicinai per leggere e scoprii che si trattava della madre di Beldara, bruciata viva per essere purificata dal suo peccato di stregoneria. Più di duecento anni prima. Mi voltai e corsi di nuovo alla villa. Sentii di nuovo quel pianto provenire da una delle finestre. Questa era spalancata e, tra le tende, intravidi Beldara. Corsi nella villa in preda a una curiosità folle e, per certi versi, maledetta. Raggiunsi la stanza che pensavo appartenesse a quella finestra. Spalancai la porta e ciò che vidi, quello…
Beldara teneva un pugnale in mano, i suoi vestiti erano per metà a terra, addosso aveva solo la biancheria. Le sue mani bianche erano intrise di sangue. Una di queste era appoggiata sulla sua bocca, il suo corpo era scosso dai singhiozzi. Le lacrime le scendevano dagli occhi, attraversavano le sue gote e le sue dita per andarsi a gettare sul mare di sangue delle sue mani. La luce la illuminava a tratti, la candela continuava a gettare luce sul suo corpo, luce che sembrava muoversi con il suo dolore. Vicino a lei, su un letto a baldacchino, le cui tende era di seta rossa, potevo intravedere un corpo. Il corpo di un uomo, il viso nascosto dalle tende, ricoperto di sangue. Beldara si girò verso di me. Tra le lacrime mi si gettò tra le mie braccia e mi disse che non voleva più… non voleva più farlo. Io lasciai che si sfogasse e il suo racconto fu terribile. Sua madre era una zingara, suo padre uno stregone. Dopo la loro morte, lei trovò il Pugnale nel libro di sua madre. Dovette fare delle ricerche per scoprire a cosa servisse. Io mi appoggiai a terra e cercai di farla calmare. Lei mi porse una lettera. Io presi il pugnale e la sollevai da terra per farla stendere sul divano presente nella stanza. Prima che mi alzassi mi disse che non valeva la pena vivere in eterno se non c’era qualcuno al suo fianco e quel qualcuno ero io. Aveva visto in me la purezza e ne era rimasta affascinata. Era disposta a rinunciare anche all’immortalità, se per me fosse stato troppo. Altrimenti avremmo potuto vivere per sempre. Insieme. Come scritto nella lettera. Io l’aprii e la lessi.
Una vita in cambio di una vita, prolungamela.
Se tu mi amassi veramente,
faresti di tutto per me. E io voglio viverla.
Viverla, viverla eternamente,
Con questo pugnale io ti tolgo la vita.
Con questo tuo amore io prolungo la mia vita.
Con queste mani ti dono tutta me stessa.
La maledizione del pugnale, di chi ama se stesso.
Il pericolo della morte nascerà
Quando qualcuno mi farà innamorare,
Solo allora, uccidermi potrà
E con questo pugnale
La sua vita prolungare
Finché qualcuno non lo farà innamorare.
Ricorda , mio unico amore tenero
Niente è eterno, tutto è effimero.
L’inizio è l’amore,l’amore è la fine
Che il cerchio d’odio si chiuda
Poiché ci attende L’immortalità creduta.
Le mie mani scarlatte vivranno in eterno sulle pene di chi mi ha amato.
Io lessi. Lessi e sorrisi. Il pugnale era ancora caldo per il sangue dell’uomo. “Oh Beldara” dissi “ti sei fidata di me fino a questo punto… come potrei dire di no?” Nascosi il pugnale dietro alla schiena. Mi accostai a lei. Amore? Io ho mai detto di amarla? Non l’ho neanche mai pensato… era il posto a piacermi… la baciai con foga, con passione. Il suo ultimo bacio… sentii il pugnale attraversarle il corpo… sentii il suo sangue sulle mie dita… lo sentii nella mia bocca… e sentii le sue lacrime scorrere sulle mie guance fino a raggiungere le mie labbra. Sentii la sua vita, ciò che avrebbe ancora vissuto, entrarmi dentro… una scossa calda e piacevole. Lei si accasciò sul divano, esanime. Il volto candido, incorniciato dai riccioli biondi. Un braccio cadde dal bordo. Mi guardai attorno. In un angolo c’era il corpo della cameriera, probabilmente una marionetta creata da lei. Trovai il libro e osservai la lettera. Con il pugnale, sottile era la lama, proprio come un foglio, scrissi l’ultima frase con il suo sangue.
Le mie mani scarlatte vivranno in eterno sulle pene di chi mi ha amato.
Uscii in giardino. Fuori la neve aveva smesso di cadere, il tempo aveva ricominciato a scorrere anche alla villa. Io uscii nella notte, con nient’altro che il libro, contenitore per il pugnale e per le ultime sue volontà. Il mondo mi attendeva. Adesso non avevo più paura. Adesso l’avevo… avevo ciò che più desideravo… per questo ti ringrazio, Beldara.
Bene, la prossima sarà l’ultima di quelle scritte, se mai capiterà le continuerò (ne mancherebbero almeno due per completare “il ciclo” ma questo non vuol dire che potrebbero essere di più). In ogni caso dopo aver pubblicato l’ultima scriverò un breve articolo su queste storie per spiegarle meglio.
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